Incredibile, sotto casa mia in pieno centro storico di Palermo, sento suonare un mandolino.

Scendo per strada e trovo una sartoria storica, insegna ancora disegnata a mano. Una sola luce, un casotto delizioso, macchine da cucire antidiluviane e un tipardo ultrasessantenne seduto al centro che pauseggia con la sua mandola, con un sorriso che incornica sornione un viso sereno e rubicondo.
Entro la testa (dopo i sei metri di nasino alla francese che mi ritrovo) e interrompo il momento di magia. Chiedo scusa mortificato, mi guardo intorno, osservo la faccia esterrefatta di mia figlia e scorgo due mandole, una chitarra classica, una elettrica dei bongos e un Djambé da marocchino per strada.
Chiedo rispettosamente lumi dopo un lunghissimo lumacheggio profuso in salamelecchi e consapevolezza di essere un qualsiasi disturbatore.
I menestrello rammendatore mi guarda e i suoi occhi e la sua bocca sono un elisir di pace.
Poi mi spiega che il sabato in quella bottega si riunisce con una cricca di “veterani del tempo sospeso”, sono circa sei/otto e suonano tutto il pomeriggio.
E io li ho sotto casa. Ho chiesto se potevo osservarli qualche volta e lui: “Vassia suona?” e io: “più che suono diciamo che sono posseduto da un tenero ukulele e che sarei molto felice se Vassia mi concedesse l'onore di unirmi un pomeriggio a loro”. “Quando vuole noautri semo sempri ccà, io tutti i iorni, l'amici u sabbato pomeriggio”.
Ringrazio e felice pianifico il mio lento accesso al valhalla dei musicanti. Sabato sarò li ad ascoltarli, poi un po', ma giusto un po' mi preparerò e non vedo l'ora di morire li dentro.
Palermo, maledettissima fottuta città, ti amerò sempre.